A colloquio con il poeta e scrittore Francesco Granatiero

”Il dialetto, questo sconosciuto”

È nelle sere d’estate che ci si ritrova seduti sulle scale di un vecchio palazzo a ricordare il tempo perduto. Si parla con i compagni dell’infanzia e dell’adolescenza rientrati dall’estero o dal nord per le vacanze. E il discorso può toccare i più svariati argomenti, tra cui i termini dialettali a cui quel tempo è indissolubilmente legato, e può diventare anche molto interessante. Succede immancabilmente se con noi si trova un poeta e scrittore del calibro di Francesco Granatiero, un chiaro punto di riferimento per chi si accosta al dialetto e alla poesia dialettale. Granatiero è autore, oltre che di numerosi libri di poesia in dialetto tra i più considerati, anche di una nota Grammatica del dialetto di Mattinata (1987), del profilo linguistico parascolastico della Puglia La memoria delle parole (2004) e di vari dizionari, tra cui il monumentale, imprescindibile Vocabolario dei dialetti garganici (2012). Il suo blog “Poesia e dialetti” è oggi tra i più visitati. Rivolgiamo al poeta originario di Mattinata (ma da lunga data medico a Torino) alcune domande. Molti trovano assai difficile leggere il proprio dialetto e qualcuno sostiene addirittura che esso, trattandosi di espressione legata all’oralità, non andrebbe neppure scritto. “Il dialetto va invece scritto, eccome! – risponde Granatiero – Cosa resterà di esso quando a poco a poco i giovani finiranno per non parlarlo più?”  Ci si potrebbe limitare alla traccia sonora. “Ma il supporto analogico o digitale (dalla bobina magnetica al floppy disk, dal CD al web) ubbidisce alle leggi di mercato e non è affidabile, non avendo una durata illimitata, mentre il papiro e il libro offrono ancora una documentazione duratura. Il dialetto, se scritto bene, senza discostarsi molto dalla grafia appresa a scuola, non è poi quella bestia indomabile che si vuol far credere. È solo questione di volontà e di esercizio, quando non intervenga un vecchio, radicato pregiudizio”. 

Ora però sembra che i dialetti godano di una migliore reputazione. C’è chi dice che essi vadano considerati come lingue. “Certo, e lo sono – continua Granatiero – I linguisti non fanno differenze. Ma le mamme continuano a non insegnare il dialetto ai figli, credendo di avvantaggiarli nell’apprendimento dell’italiano. Cosa peraltro smentita dagli psicologi e dai pedagogisti. Più lingue e dialetti si apprendono da piccoli e maggiore sarà la disinvoltura con cui si muoveranno da grandi nelle diverse società”. È possibile insegnare il dialetto a scuola? “Il dialetto si apprende solo con l’uso, in famiglia e tra i compagni di gioco. A scuola bisogna solo instillare il germe della curiosità, far comprendere il valore e la ricchezza dei dialetti, che rappresentano oltre che il nostro carattere identitario, il codice della nostra civiltà. La scuola deve sforzarsi di dare ai ragazzi la consapevolezza linguistica del dialetto così come delle altre lingue con cui si viene a contatto, anche quelle degli immigrati. Parlare un dialetto infatti non vuol dire conoscerlo. Noi lo parliamo in maniera inconsapevole. Non ci rendiamo conto dei suoi meccanismi”.

I dialetti hanno una grammatica? Secondo Granatiero, “gli insegnanti durante la lezione di italiano dovrebbero solo fare qualche confronto tra le parole delle diverse lingue, evidenziare saltuariamente, ad esempio, come la parola dialettale “putéje” sia sorella dell’italiano “bottega” e come entrambe derivino dal greco “apotheka”, che in alcune lingue indica la farmacia. Ogni dialetto ha una sua grammatica non scritta, che deriva dall’uso. Sono le varianti fonetiche di una parola come “albero” (che in Capitanata suona: arve, àrvele, àrevule, àreue, àrbele ecc.) a determinare i mutamenti e il differenziarsi di una lingua rispetto a un’altra, di quelle derivanti dal latino “arbor”. Per cui si ha “arbre” in francese, “árbol” in spagnolo, e così via”. 

Molti credono che il dialetto sia una deformazione dell’italiano, una sua storpiatura. “Purtroppo ci credono. Ma è evidente che non è così. L’italiano “làstrico” corrisponde al latino “astracum” (pavimento). Il dialetto “àstreche” somiglia al latino più dell’italiano. E la somiglianza dipende dalla fonetica, non certo da una presunta nobiltà del “volgare” più o meno illustre”. È vero che in dialetto non c’è il futuro? “In molti dialetti, sottolinea Granatiero,  manca il futuro del tipo “avrò”. Però Manzoni dice: «Questo matrimonio non s’ha da fare». È un indicativo negativo e corrisponde anche al nostro futuro perifrastico “nen z’ha dda fà”, che noi usiamo anche nel senso di “non si farà”. Ma se si cerca bene, in un dialetto come quello di Mattinata, si trova anche un futuro di tipo toscano: “starradde durmenne” (starà dormendo, forse sta dormendo). E, parlando ancora di verbi, si trova anche una strana forma di imperativo negativo del tipo “nen parlanne!” (non parlare!) che in realtà corrisponde al gerundio “non parlando”. Una stranezza che si spiega con l’abbreviazione di “nen gi parlanne!” (letteralmente: non andare parlando!), diffusa dove “andare” suona “scî” (negativo “nen gi”), come in Terra di Bari e nel Gargano meridionale, ma non dove si dice “ji”, come nel Tavoliere e nel Subappennino, dove l’avverbio “ci/gi” (qui) di “nen gi vene” (non ci viene) non può confondersi con il verbo “scî/gi” di “nen gi venenne!” (non andare venendo!)”.

Francesco Bisceglia
La Gazzetta del Mezzogiorno
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