Portare addosso un basto di parole

Francesco Granatiero presenta ”Varde”, poesie in dialetto garganico di Mattinata

Che cosa significa scrivere in una lingua che sta morendo?

Francesco Granatiero costruisce la sua poesia intorno a una simile variazione sul tema. Nato nel 1949 a Mattinata, nel Gargano, ne usa il dialetto da lontano, come attraverso la memoria (Varde. Poesie in dialetto garganico di Mattinata, Aguaplano, è una scelta della sua produzione).

Scrivere in dialetto è per lui come passare per una porta: accedere a un mondo, alle sue presenze. Si tratta, il poeta lo ripete, di «paròule morte» (lui che è anche studioso del dialetto). La sua è anzi la lingua stessa dei morti, in cui si inoltra come in una dimensione intima, eppure senza idillio. Il poeta scava come il padre lavorava la terra: affonda, scende, cerca. In questo frugare c’è un’ambivalenza. Forse è una fossa quella che egli sta scavando; o forse sotto le parole dei morti è un sole che insegue. Così costruisce strofe rigorose, forme chiuse (sonetti di settenari, in particolare), che sono però visitate dall’inquietudine. La voce che soffia nella lingua dei vecchi è come «nu cummanne», un comando. E il «basto» di cui si caricano gli animali (e che dà il titolo alla raccolta: «varde») è simile al peso delle parole per chi scrive. È un gioco? È una pena? Certamente un esercizio di pazienza. Al cui fondo si può recuperare la grande poesia europea, quella di Rilke ad esempio. Per continuare a dialogare, in una parlata «figghie de lu delòure» («figlia del dolore»).

Daniele Piccini
in ''La Lettura - Corriere della sera'', 20 Nov 2016
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