Il ricordo di Don Peppino Prencipe, sacerdote di grande umanità
- 14 Ottobre 2024
Molto amato dalle comunità di Mattinata e dalla frazione di "Macchia", esempio di dedizione e impegno sociale
Un mix di devozione e leccornie, per necessità pù che per altro
Archiviato il Carnevale (eccezion fatta per l’appendice della pentolaccia o carnualette), già dal Mercoledì delle Ceneri l’unica Chiesa acquistava una atmosfera da preludio tragico che sarebbe durata per l’intera Quaresima.
Gli altari disadorni, le statue dei Santi nascoste ai fedeli da tendaggi oscuri, i paramenti sacerdotali neri, una atmosfera complessivamente tetra che si sarebbe protratta per quaranta giorni con la sola eccezione della Domenica delle Palme, gioiosa anticipazione della Pasqua di Resurrezione: nel corso della processione i contadini portavano grossi fasci di ulivo da benedire e diffondere in ogni ambiente del vivere quotidiano, dalle case alle campagne.
Ogni Venerdì all’interno della Chiesa si svolgeva una pietosa Via Crucis, molto partecipata dai fedeli, al seguito di una grossa Croce nera con i simboli della Passione: il martello, la lancia, il gallo, la tenaglia.
Una Quaresima di non difficile osservanza sul piano alimentare, già quotidianamente essenziale, specie per la carne ritenuta un lusso per pochi privilegiati ed assaggiata in rare occasioni da annotare nella memoria oralmente trasmessa nelle famiglie.
I riti della Settimana Santa, ridotti all’essenziale e poco folkloristici, a dispetto della tradizione di origine spagnoleggiante dell’intero meridione e del Gargano in particolare, erano concentrati a partire dalla sera del Giovedì Santo quando îce attacchène li ccampèneî (si legano le campane) e a conclusione di una solenne liturgia in ìCena Dominiî officiata dall’Arciprete sull’altare maggiore, il Santissimo protetto dal corpo del sacerdote ammantato nel piviale (un bianco mantello) e ricoperto da un ombrellino, veniva traslato, a conclusione di una piccola processione, ì’nt lu Sebbùlecreì il Sepolcro o più precisamente Altare della Riposizione), l’altare laterale destro addobbato con ìapparèteî (drappi di damasco rosso) e veli bianchi.
Chiuso il ricco Tabernacolo d’oro e affidatane la chiave ad un giovinetto, la Chiesa, unica per Mattinata, restava aperta per tutta la notte durante la quale l’intera popolazione si alternava in una continua veglia orante.
Veglia che continuava, come oggi, anche il giorno seguente Venerdì Santo, in cui rigorosissimo era il digiuno.
Nel tardo pomeriggio, riaperto il Sepolcro, solenne si celebrava la liturgia della Passione che, dopo i ripetuti ìoremus,flectamus genua. Levateî (preghiamo, inginocchiamoci. Alzatevi) pronunciati dal sacerdote, si concludeva col bacio della Croce: partivano dalla chiesa due distinte processioni, rispettivamente una al seguito della Croce composta di soli uomini, l’altra, composta di donne, dietro la statua della Addolorata (anticamente ve ne era una rivestita di un ricco abito nero), ricoperta da un lungo mantello nero e col cuore trafitto da un pugnale, sorretta da giovani donne vestite a lutto.
Le processioni seguivano percorsi diversi e a sera si concludevano nella piazza principale (oggi piazza Aldo Moro) per il pietoso incontro tra il Figlio e la Madre.
Unica particolarità folkloristica il suono assordante lungo il percorso delle ìjaletteî (battole) e delle ìtrozzeleî, piccole raganelle a mano o grossi marchingegni in legno azionate da ragazzi assiepati sul pendio della Coppa della Madonna o nelle scalinate che costeggiano Corso Matino.
L’annuncio della Resurrezione era anticipato, rispetto ad oggi, al mezzogiorno del Sabato Santo quando ìscapulèscene li campèneî, ovvero le campane della torre campanaria, slegate, suonano a festa.
L’altare maggiore era stato ricoperto da un bianco lenzuolo sul quale campeggiavano le sagome, ormai sbiadite e stinte di due soldati romani (li ggiudeje) posti a guardia del Santo Sepolcro.
Appena il sacerdote intonava il Gloria, il lenzuolo veniva lasciato cadere, calpestato dagli astanti e la statua del Risorto appariva trionfante mentre riprendevano a rumoreggiare per tutta la chiesa trozzele e jalette .
E’ opportuno evidenziare che questi ricordi ci portano in età pre Concilio Vaticano II, quando nella liturgia della Settimana Santa della Chiesa Cattolica si recitava l’orazione per la conversione dei ìperfidi Giudeiî colpevoli di deicidio, ancora lungi da venire Giovanni Paolo II con le sue visite alle Sinagoghe e le scuse al popolo ebraico per i secoli bui di violenze e segregazioni nei ghetti.
A conclusione della messa, nell’atrio della sacrestia, si benedivano le caratteristiche ìscarasceddeî, pagnottelle dalle svariate forme (cestini con le uova, bamboline, colombine, cosparse di tuorlo d’uovo o glassate).
Nello stesso luogo il giorno seguente, Domenica di Pasqua, venivano benedetti i cestini colmi di uova sode (portate poi dai bambini di casa in casa augurando ìBbona Pasque e qquisse sonne l’òveî) e il tipico pane pasquale chiamato ìbenedettoî, che si sarebbe mangiato all’inizio del pranzo pasquale, dopo la recita del Pater noster da parte del capo famiglia. Il pranzo era costituito da frivùle (malfattini) in brodo e carne d’agnello.
Il lunedì di Pasquetta il pranzo era a base di maccheroni con ragù di carne consumato a casa: la tradizionale scampagnata si svolgeva nel pomeriggio avendo come meta preferita dai mattinatesi la ìcasetta dei marinaiî: immancabile uno spuntino a base di frittata, uova e pane benedetto innaffiato da un buon bicchiere di vino rosso che a fine giornata metteva allegria liberando nell’aria mite di aprile arditi cori di ìpambanelleî.
Mattinata, 16 aprile 2006