Francesco Granatiero: metti una serata magica tra gli amici…

Una serata tra i suoi compaesani. Il poeta mattinatese annuncia l’uscita del suo prossimo capolavoro

Chi a Mattinata non conosce Francesco Granatiero? I suoi dati onomastici e professionali (è medico e vive in Piemonte) sono ormai in secondo piano: qui a Mattinata è per tutti il Poeta, il cantore di questo lembo del Gargano la cui parlata, grazie anche alle sue numerose pubblicazioni dialettologiche, ha superato gli angusti confini locali.

Parlo volentieri di Francesco Granatiero, cui mi lega una antica amicizia, rafforzata negli anni da comunanza di interessi legati al nostro territorio, che a ragione può essere additato quale alfiere della mattinatesità, ma preferisco in questa sede, dove è possibile, lasciar parlare Il Poeta o la sua poesia.

Il pretesto mi viene offerto dall’inusuale serata presso il Ristorante ìAgnuliî, immerso tra gli ulivi della costa, che fiancheggia il vallone di Tor di Lupo e per l’occasione così gremito (grande e sentita la partecipazione dell’affezionato pubblico di Mattinata, ma anche di altri paesi del Gargano, al richiamo della poesia di Francesco Granatiero), tanto che il padrone di casa, il cuoco Tommaso Totaro, si è rammaricato per non aver potuto accogliere tutti i convenuti.
L’intensa recitazione dei versi è stata impreziosita da segghiuzze e ttetìteche ìsinghiozzi e solleticoî (così recitava l’invito) di musiche internazionali eseguite dal tanto giovane quanto apprezzato Filippo Natale di San Giovanni Rotondo con la fisarmonica appartenuta al grande Peppino Principe.

Ciccillo Granatiero (come è chiamato dai suoi concittadini) ha iniziato il suo recital con alcune poesie scritte in occasione della Festa dell’Olio Nuovo 2006 e dedicate all’ulivo, la cui simbologia mediterranea, a partire dal biblico diluvio e attraverso tutta la mitologia greca e romana, diventa l’Europa da cui si noma (Olea europaea).
Il dialetto, i versi, la voce e il timbro del Poeta ancora una volta hanno raggiunto il cuore di Mattinata, avvolti da un magico silenzio, rotto soltanto dagli scroscianti applausi di un pubblico attento e qualificato.

E’ stato lo stesso Granatiero ad anticipare e chiarire agli amici vecchi e nuovi il significato recondito del titolo del suo prossimo libro, La passète, ìL’ormaî.

´La passète è la passata, l’usta, l’emanazione lasciata da un animale selvatico, l’insieme di tracce orme odori e, per traslato, la traccia della storia, di lu ppassète, del passato di chi ci ha preceduti. Passato che fa tutt’uno con l’immagine umilissima della cacaròzze u lèbbre, il cacherello della lepre, la grigia pilloletta indizio di ciò che siamo stati, che il poeta dipana e dilata fino ad abbracciare l’orizzonte e l’angoscia del tempo in cui viviamoª.

Francesco Granatiero è poeta convinto assertore dell’intraducibilità della poesia (concetto da lui più volte espresso in varie interviste) e ribadito anche nella premessa a ìGiargianeseî, che con le sue filologiche versioni sembrerebbe invece affermare il contrario.
Contro questa sua idea di fondo, il Poeta caparbiamente traspone nel nostro dialetto il meglio della poesia del mondo occidentale.
E infatti ìtravasa l’infinito nel secchiello di un giargianese povero e negletto, sfruttando la sua concretezza, fino a rendere la leopardiana immensità (ìtra questa immensità s’annega il pensier mioî) con la carsica, garganica irève, la grava, interiore voragine (nd’a ssa irève la mènda mèie ce affÛche)î, titolo di un suo libro e parola-chiave della sua poetica.

Come un costruttore di muri a secco, lavora parole di pietra, forse più irte e meno versatili delle ìparole di legnoî del poeta trevisano Ernesto Calzavara, ma come queste pregnanti di una storia umile, dimenticata o rimossa, fino a farne una lingua capace di appropriarsi dei contenuti e delle forme della Poesia che parla attraverso i grandi della letteratura del mondo occidentale, da Omero a Rilke, da Dante a Szymborska: La cepÛdde è n’ata còuse / Ne ndène caledume / Tutta quande cepÛdde / Fine a lla cepuddume / Cepeddute dafÛre / Cepeddòuse fine a u cÛre / Putarriie uardàrece dajindre / Sènza pegghiè pavure (La cipolla è un’altra cosa / Interiora non ne ha / Completamente cipolla / Fino alla cipollità / Cipolluta di fuori / Cipollosa fino al cuore / Potrebbe guardarsi dentro / Senza provare timore – trad. it. di P. Marchesani).

Per questo, non ci si deve stupire, se il suo dialetto oggi coniuga il privato, come ìintimoî e come ìassenzaî, con la gioia e il dolore universali.
Ancora una volta, Francesco Granatiero, con la sua pronuncia piena, dal timbro caldo, ora cupo ora chiaro, ha dato corpo a un dialetto tanto arcaico da risultare a volte incomprensibile, sebbene linguisticamente e storicamente così vivo e vero, da sbalordire gli astanti dialettofoni, fino a creare una intensa atmosfera di straniante magia.

In questa magia Granatiero ha toccato temi di scottate attualità. Ricordando quel famigerato 11 settembre, ci ha invitato a riflettere su una possibile colpa del mondo occidentale. Lo ha fatto con un sentimento di pietas per i morti delle Twin Towers e per i loro familiari: Chi ce angrambe a zzangune / a ggètte recrijarie / u fume u lève l’arie / j˙cchie e ccÛre chenzume (Chi si appiglia a spuntoni / a oggetti di reliquiario / il fumo gli toglie l’aria / occhi e cuore consuma).

Ha rinnovato lo sbigottimento suscitato dai sorci ammurtalète, (mortificati), che quand’anche scattati da un odio a lungo represso, dalla nostra colpa di non averlo prevenuto, se non proprio determinato, sgusciano come ìtalpeî che tramano in cunicoli di morte, dirottatori di ìuccelli di fuocoî scagliatisi contro la pace e la libertà: Tapunère-aucÌdde de f˙che / hanne allambète / ndrubbechète la pèce / nd’u cÛre Nuuijòrche (Talpe-uccelli di fuoco / hanno divorato / sepolto la pace / nel cuore di New York).
Sono malvagi accecati dalla follia integralista: Attàneme a i mmappine / nu tezzòune nd’i camine / li facèive lu sfùmeche / A i malevÌrme Criste / manghe Jisse li dè lume (Mio padre ai ratti / un tizzo nei cunicoli / faceva il suffumigio / Ai malvagi Cristo / neanche Lui dà lume).

Ma chi sposa la morte, e stermina gli innocenti, ci induce a riflettere: Chi ce nzòure p’la mòrte / ce pigghie a ssecherdune / ce sccande, ce schemmògghie… / ce scètte, vrevegnòuse, l’àneme / nd’u stÌrche de na cÛlepa andecòrie… (Chi sposa la morte / ci prende di sorpresa, / ci scuote, ci spiazza… / ci getta, vergognosa, l’anima / nell’immondezzaio di una colpa antica…).

Non meno scottante il tema dell’immane sciagura scatenata dallo Tsumami: de li ggiÛi puuerÌdde / pe li mmène a irambune / che strinde a nnu pezzuche / ce angràmbene alla vite… / de tutte li ffermiche / ñ ca jàlete ne nzime ñ / che l’acque hÛu spatrijète / da qqua, da ddà, chi mòrte / e cchi sscianghète… (di quei poveretti / con le mani a ramponi / che stretti ad un appiglio / si aggrappano alla vita… / di tutte le formiche / ñ chè altro non siamo ñ / che l’acqua ha disperso / di qua, di là, chi morto / e chi sciancato…).

E’un tema ricondotto nel proprio vissuto, che diventa naturale prosecuzione del dolore personale: Jè bbèlle, tròppe bbèlle… / Me l’hèj’a vedè rrète… / m’ha’ ditte a mmè partènne / E tt’è venute bbÛne / nd’a nnu llÌtte veluzze / sècche e pprète, all’˙cchie // sÛra mèi, tutta quande / la passète… (è bella, troppo bella… / Me la voglio rivedere… / mi hai detto partendo / E ti è venuta bene / in un letto di asfodeli / secchi e pietre, agli occhi / sorella, tutta quanta / la storia della vita…).

Poi l’occhio e la mente si aprono sul desolante scenario dell’esodo iracheno di Prescèzza nz˙nne (Gioia in sogno), con il bambino e il triciclo davanti a un deserto di mille o nessuna possibilità:

E cchè mme lagne jije?
J˙cchie jir˙sse, apÌrte,
spÌrte vanne e ddemÌrte
nd’a uuèrre e ccarestije.

Frùsckele d’angunije
ne nzèndene scungÌrte?
Trecicle e ogni vvije
chi abbènge p’i desÌrte

a ffème assarse f˙che,
a nnèive vÌnde addòure
de mòrte, a mmalatije?

Ne ndènne jate sci˙che:
prescèzza nz˙nne e ll’òure
lu j˙rne assènza Ddije.

(Perchè mi lagno io? / Occhi grandi, aperti, / nomadi vanno, sommersi / da guerre e carestie. // Animaletti d’agonia / non provano disagio? / Con triciclo e ogni via / chi fa fronte per i deserti // a fame arsura fuoco, / a neve vento odore / di morte, a malattie? // Non hanno altro gioco: / gioia in sogno e l’oro / del giorno senza Dio).

La poesia, perciò stesso che è poesia, ñ diceva Pascoli ñ è altamente morale. Ad essa il compito di dare un senso alla vita e al dolore: quello proprio e quello di ogni uomo. Il dolore è come un volto di agonia. Ed è questo volto che noi dobbiamo cercare nella nuova poesia di Granatiero, facendo nostri i versi di Emily Dickinson da lui mirabilmente tradotti:

Me pijèce na facce
d’anguniie, pecchè sacce
ch’è ruuère: nge pònne
fènge ràteche o strisme.

L’˙cchie, irite ñ è la mòrte.
Nge pònne fènge i ppèrne
sedòure che la pène
de chèse mbrÛnde nzèrte.

(Mi piace un volto di agonia, perchè so che è vero: non si possono simulare rantolo o tetania. Gli occhi, cocci di vetro ñ è la morte. Non si possono fingere le perle di sudore che l’angoscia domestica sulla fronte infila).

Granatiero all’ìAgnuliî ci ha regalato una serata da non dimenticare.
Ma siamo convinti che altre ne seguiranno, ora che Interlinea di Novara annuncia per il 2007 (vedi Daniele Piccini, in ìLettureî n. 633) la pubblicazione di La passète, ìL’ormaî, di cui il Poeta di Mattinata non ci ha dato che un assaggio.

Antonio Latino
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